2 settembre 2019 – È stato pubblicato il libro di P. Vito Giorgio, Ruanda 1994 – Diario di un genocidio, a cura della editrice Il pozzo di Giacobbe. Riportiamo una recensione del libro, apparsa ne L’Osservatore Romano il 30-31 agosto.
Si dedica un minuto a riflettere sulla tragedia di una persona, anche sconosciuta, quando si ha notizia che è stata uccisa in modo atroce? Sì, di solito lo si fa. E se le persone sono un milione? Non vittime di un cataclisma, ma appunto trucidate atrocemente, una per una, in tre mesi di ferocia scatenata. No, non si può dedicare un minuto a ciascuna. Ci vorrebbero due anni di seguito, senza dormire o mangiare, senza fare altro.
Un milione di morti sono un numero, un bilancio. Un milione, secondo i dati stimati dall’Onu per difetto, furono gli uomini e le donne, i vecchi e i bambini, massacrati nel genocidio in Rwanda della primavera e inizio estate del 1994.Venticinque anni dopo, un contributo prezioso di memoria e comprensione di quella immane tragedia lo offre ora un libro del missionario rogazionista padre Vito Giorgio, «Ruanda 1994, diario di un genocidio», edito da Il pozzo di Giacobbe. L’autore, missionario nel Paese africano dal 1981, si trovava momentaneamente a Roma quando fu raggiunto dalle prime notizie di quanto stava accadendo, e vi tornò subito, non senza difficoltà per raggiungere la sua sede missionaria, l’orphelinat (orfanatrofio) del Centre St. Antoine di Nyanza. Con lui viaggiò, insieme con altri colleghi, il giornalista di «Famiglia Cristiana» Luciano Scalettari, che firma la presentazione del libro.
Quelle notizie
datavano dal 7 aprile, quando cominciarono i cento giorni più feroci della
storia del Rwanda e forse di quella dell’umanità intera dopo la fine della
seconda guerra mondiale. A scatenare l’orrore in cui sfociarono decenni di
conflitti tra le etnie hutu e tutsi fu un attentato: il giorno prima erano
stati uccisi il presidente rwandese, Juvénal Habyarimana e quello burundese
Cyprien Ntaryamira, nell’abbattimento del loro aereo che stava atterrando
all’aeroporto della capitale rwandese Kigali. I due presidenti rientravano da
un vertice di capi di Stato dell’Africa centrale tenuto a Dar-es-Salaam, in
Tanzania, e dedicato proprio alla guerra che da anni vedeva contrapposti gli
hutu e i tutsi che abitano i due paesi. Il conflitto non era stato fermato
neppure dagli accordi sottoscritti il 4 agosto dell’anno precedente ad Arusha,
sempre in Tanzania, che prevedevano l’ingresso nel Governo di transizione
rwandese di esponenti del Fronte patriottico rwandese (Fpr), il gruppo armato
dei tutsi, quello guidato dall’attuale presidente Paul Kagame.
La violenza spaventosa che si scatenò dopo l’attentato colse impreparata la
comunità internazionale, che almeno all’inizio sottovalutò gli avvenimenti,
come ammise anni dopo il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, che
all’epoca era responsabile delle missioni militari dell’Onu stessa, compresa
quindi l’Unamir, schierata in Rwanda l’ottobre precedente e che ebbe dieci
caschi blu uccisi già il primo giorno, mentre cercavano di proteggere la fuga
del primo ministro, Aghate Uwilingiyimana, anch’ella uccisa insieme a molti
esponenti del governo. Eppure non erano mancati i moniti e gli appelli accorati
delle coscienze più vigili, primi fra tutti quelli di Giovanni Paolo II, che
della tragedia rwandese parlò continuamente in quei mesi, ma già prima, nel
discorso di inizio anno al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, aveva
ammonito sui pericoli incombenti sul Rwanda. Ciò detto, un aspetto del
conflitto tra hutu e tutsi, popolazioni entrambe a grande maggioranza
cattolica, non può essere taciuto, né lo tace l’autore di questo libro: quello
del coinvolgimento di molti religiosi. Fin dall’inizio il sangue segnò la
Chiesa rwandese, spesso con il colore del martirio, ma talora — ed è qualcosa
che ancora sconvolge — macchiando mani colpevoli. Né si è ancora conclusa la
riflessione profonda su questo aspetto, necessaria affinché maturi davvero e
dia frutti l’impegno per la riconciliazione.
Il titolo del libro
non sembra casuale. L’intero racconto, infatti, si basa in gran parte sul
diario personale di padre Giorgio, intrecciando alla sua le vicende delle
persone, soprattutto bambini, incontrate durante la sua missione e investite da
quegli avvenimenti spaventosi. Persone spesso travolte, ma anche persone
salvate. Furono oltre un migliaio, infatti, soprattutto bimbi rimasti orfani a
causa della ferocia genocidaria, a salvare almeno la vita grazie alla relativa
protezione che l’orphelinat di Nyanza riuscì ad offrire loro. Alcune delle
testimonianze vengono da lettere che padre Giorgio ha ricevuto, talora a
distanza di anni, dagli scampati al genocidio.
Importanti sono nel libro i cenni storici sul Rwanda e l’analisi delle cause
che portarono prima alla guerra, poi al genocidio, poi alle nuove mattanze
delle vendette, perpetrate dentro e fuori il Paese. Terribile fu l’anno dopo il
massacro nel campo profughi di Kibeho, proprio il luogo delle prime apparizioni
in Africa di Maria Santissima riconosciute dalla Chiesa. Qui i soldati tutsi,
preso il potere il 4 luglio, trucidarono migliaia di persone, comprese donne e
bambini, mentre da Kigali il nuovo Governo rivendicava «il diritto di separare
i profughi dagli autori del genocidio». L’Onu e le organizzazioni
internazionali, dopo aver assistito impotenti al primo, terrificante attacco,
riuscirono a portare in salvo migliaia di bambini, spesso trovati accanto ai
cadaveri delle madri. La memoria di quelle ore, in chi le ha vissute, è
terribile. Quei bambini non parlavano, non piangevano, alcuni erano impazziti.
E vacillò anche la ragione di quanti si prodigarono per rendere quell’orrore,
sia pure in minima parte, meno crudele. Pure, in ogni retta coscienza, l’unica
compagna — parziale e amara — della pietà per le tante vittime innocenti è
proprio la gratitudine per costoro, la riconoscenza per quanti, in quella come
in altre tragedie, combattono l’odio con l’amore, affermano il bene senza
aggettivi, riscattano la dignità inalienabile dell’uomo anche là dove l’umanità
sembra latitante.
Altrettanto, se non più, importante, è nel libro di padre Giorgio l’analisi degli avvenimenti, strettamente legati alla vicenda rwandese, che la seguirono e segnarono la storia di quegli anni nell’intera regione dei Grandi Laghi. Cinque anni fa, aprendo a Kigali le celebrazioni per commemorare le vittime, l’allora segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ricordò che nella regione «l’impatto del genocidio si fa ancora sentire».
Vale ancora oggi. Scrive Scalettari nella sua presentazione che il libro, venticinque anni dopo, «non è solo ricordo e memoria (che pure sono tanto importanti). È anche monito perché non accada mai più, né in Rwanda né altrove. Nessuno è immune dal virus del razzismo, tantomeno da quello della propaganda che spinge a odiare, che aizza gli uni contro gli altri in nome di qualche supremazia da esercitare, che incita a eliminare chi diventa un problema». E in conclusione si può concordare con Scalettari che «l’universalità delle pagine scritte da padre Giorgio, in fondo, risiede in questo messaggio».