La vicenda terrena di Gesù si chiude con la sua morte in croce. Dopo la flagellazione e la scena di dileggio, il racconto degli Evangelisti prosegue con la frase: «lo conducono fuori per crocifiggerlo» (Mc 15,20; Mt 27,31; Lc 23,26).
L’ora della morte di Gesù è segnata dall’oscurità che, in pieno giorno, copre tutta la terra: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio» (Mc 15,33; Mt 27,55).
La Passione e Morte costituiscono certo il momento culminante della vicenda terrena di Gesù, ma, nello stesso tempo, esse sono intimamente collegate con tutto il resto: con la sua predicazione, con il suo insegnamento, con i suoi miracoli, con il suo atteggiamento verso i peccatori.
Ma è alla luce della Risurrezione, che noi dobbiamo fare memoria della Passione del Signore.
La Redenzione compiuta da Cristo è essenzialmente opera di amore. Ed è solo con la categoria dell’amore che va interpretata la morte di Cristo, poiché come disse Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Non lo si ripeterà mai abbastanza: non è il sangue che
salva, non sono le sofferenze del Crocifisso, che eppure furono atroci, ma
l’amore con cui Cristo ha accettato la Croce. Ci sono state tante persone che
sono morte in croce, bestemmiando. Gesù, invece, ha fatto dell’atto finale
della sua vita l’espressione più alta dell’ispirazione che l’aveva sorretto fin
dall’inizio: l’amore che dona la vita.
Quella di Gesù è stata una
vita donata e per questo è stata ed è un vita feconda.
Non è l’atrocità del supplizio che ha valore salvifico, ma l’intensità
dell’amore, col quale il Figlio consegnò la sua vita.